Fenomenologia versus ragion pura

Fenomenologia versus ragion pura

Io e il mio amico di Palermo discettiamo di filosofia.

C’è chi dibatte di calcio, chi di Sanremo. Io e il mio amico di Palermo discettiamo di filosofia.
Il pomo della discordia è l’episteme. Siamo una inedita coppia di amici: i primi uomini al mondo che non si accapigliano per una donna. Chi non è iniziato al sapere delle archai non può comprendere il piacere masturbatorio che la mente trae navigando nei cavillosi confini della conoscenza.
Da tempo imperversa tra noi la polemica delle polemiche: cos’è il dato?

Le posizioni sono antipodiche: lui è per sua formazione un Kantiano duro e puro. Il fenomeno esiste in conseguenza della presenza del noumeno. Non si oppone alla metafisica ma ne marginalizza l’importanza relegandola al dominio delle cose inconoscibili in quanto non esperibile. Ogni teoria scientifica richiede una prova dal basso, ogni assioma proprio una verifica. Non nega l’inesperibilità del noumeno ma ritiene che le differenze nella percezione delle stimolazioni individuali siano da ascriversi alle timide differenze occorrenti tra le categorie trascendentali di ciascuno, sicché una realtà ultima deve pur esistere: ipostatizza cioè la cosa in sé. Questo è il suo assioma.

Io sono per formazione un furbetto: meditatamente idealista e utilmente fenomenologista quando ciò mi conviene. Cito spesso Husserl e ciò mi costa piogge di critiche, sicché ogni Kantiano che si rispetti sa che Husserl articola la sua fenomenologia allo scopo di estromettere la metafisca dal comune eloquio filosofico. Una sorta di rasoio di Occam in chiave moderna. Ad aggrave la mia posizione, la palese adesione di Husserl al concetto di ente (nonostante la sua pretesa Cartesiana di sbarazzarsi di ogni preconcetto e semantica residua).

Ecco motivata la mia utile adesione al fenomenologismo.
Seguo Husserl sino alla definzione dell’Erlebnis, dopodiché senza paracadute mi lancio alla ricerca del bandolo della matassa. Azzardo ciò che neppure Cartesio ebbe il coraggio di affermare. Cancello Aristotele con un tratto di penna e getto via il bambino con l’acqua sporca: dichiaro l’insostenibile pesantezza dell’ente.

Torniamo pertanto alla vexata quaestio. Cos’è il dato? L’amico di Palermo afferma ch’esso sia l’immagine residua della cosa in sé. Io belligerante chioso che la cosa in sé non esiste, l’Erlebnis è dato, ma non è un dato. Il dato è lo scarto industriale di un processo che quando si consuma è scevro da ogni pretesa di coerenza. Lì è tutta la metafisica e tutto quanto davvero conta. L’io tramonta e quando sorge la scena è già data. Questo è l’io: il Thénardier furfante e sciacallo che dopo la Polemos reclama il suo regno senza accettare che quel regno è figlio bastardo dell’irrazionale, sola e unica scena di ogni avvenimento.

Questo è il mio assioma.

Io e il mio amico di Palermo discettiamo di filosofia. Non andiamo d’accordo, ma ci vogliamo bene comunque.

Avevo riservato la mattina al secondo racconto che da settimane mi ero ripromesso di scrivere per E., ma Apollo ha prevalso su Dioniso. Ad ogni modo, manterrò la promessa e scriverò un’ultima volta per lei.



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