L’illusione del vero

L’illusione del vero

Ogniqualvolta si approfondisca una tematica di carattere esistenziale, siamo sedotti dal richiamare dottrine di carattere tradizionale. La tentazione di abbandonarci a nomi eloquenti e riportarne pedissequamente il Pensiero serpeggia in noi al pari del bagliore del faro che corteggia il navigante. Tale approccio non riuscirebbe tuttavia a soddisfare l’uomo moderno. Quegli ammette solo ragionamenti prossimi alla sua mentalità mondana e modernista.
Nel tentativo ultimo di liberare l’uomo contemporaneo dalla testuggine che avvilisce il suo intelletto, opereremo argomentazioni di carattere duale. Chi vorrà comprendere, sarà liberato, chi seguiterà a bearsi delle proprie catene, sarà condannato al supplizio della modernità.

L’equivoco del vero

Notiamo anzitutto che l’idea del vero nasce dalla errata costumanza di volere attribuire una validità intrinseca ad una data affermazione.
Porteremo alcuni esempi e poi ne analizzeremo i dettagli tipografici.

“Quattro più otto è uguale a dodici”

“Il sole risplende alto nel cielo”

Tra i due enunciati riportati, si ha la netta impressione che a differenza del secondo, il primo debbe valere di per sé, in senso assoluto. Come se la verità dell’affermazione fosse categoricamente impressa nell’enunciato stesso.
Al contrario, la seconda proposizione è istintivamente attribuita ad un certo stato oggettivamente misurabile del mondo esterno.

Semantica e sintassi

La sbadatezza più comunemente commessa sta nella ingenua sovrapposizione tra semantica e sintassi.
Nei sistemi logico formali la sintassi precede la semantica.
La sintassi è l’insieme di regole che permettono la buona formazione di una formula.
La proposizione “Il sole risplendono alto; nel cielo” è afflitta da un palese vizio sintattico.
Al contrario, la semantica si occupa del significato della formula ben formata, al preciso scopo di attribuirle un certo stato logico: vero o falso.
La semantica più diffusa è indubbiamente quella Tarskiana, e si fonda sui concetti di interpetazione e preinterpretazione.


Scegliamo di non dilungarci troppo su concetti che richiederebbero lungaggini inaccettabili per poter essere discussi e chiarificati e ci addentreremo nel cuore del problema.

Enunciati analitici ed enunciati sintetici

Richiamiamo una seconda volta i due esempi riportati in precedenza. Come già evidenziato, la sensazione che i due enunciati pertengano a piani diversi è papabile. All’enunciato aritmetico è spesso attribuito l’epiteto di analitico, mentre il secondo è considerato sintetico.

Un sistema d’assiomi

Malgrado il sensus gentium, mostreremo che i due enunciati, nella propria accezione sintattica, non posseggono nulla di analitico.
Le teorie del primo ordine sulle quali si fonda la logica contemporanea rappresentano formalizzazioni di linguaggi naturali. La loro struttura è del tutto sintattica ed edificata a partire da precise regole tipografiche.


Una teoria del primo ordine è sempre costituita da un nucleo imprescindibile di schemi di assiomi logici contornati da un certo numero di assiomi propri.
Gli schemi di assiomi logici sono strutture sintattiche atte ad accogliere variabili enunciative e dedurre nuovi teoremi.
Gli assiomi propri rappresentano affermazioni specifiche sulla disciplina che la teoria formale intende studiare.

L’aspetto da sottolineare è che, tanto l’affermazione ritenuta sintetica, quanto quella analitica, necessitano di un numero di assiomi propri per poter essere dedotte.
Nello specifico, l’affermazione “quattro più otto è uguale a dodici” può essere dedotta a partire da sette assiomi propri (dovuti al matematico Giuseppe Peano) e tre schemi d’assiomi.
Anche la constatazione “Il sole risplende alto nel cielo” abbisogna di un certo numero di assiomi propri per essere dedotta. Si potrebbe adoperare essa stessa come assioma per giungere immediatamente alla dimostrazione, oppure creare una teoria più elaborata attraverso l’impiego di assiomi propri più primitivi. Tanto più vaghi e generali sono gli assiomi propri, tanto più potente è la teoria.

La sintassi non attiene al vero

Tralasciando i teoremi di completezza, sintassi e verità non hanno nulla in comune.
Un sistema formale non interpretato, altri non è che un complesso di simboli che meccanicamente assembla altri simboli. Di vero non vi è assolutamente nulla.
Torniamo a sottolineare che in questo contesto, i termini “sole”, “quattro” oppure “cielo” non possono catafrarsi di alcuno dei significati comunemente attribuitigli.
Entrambe le proposizioni potrebbero essere riscritte come

“r più h è uguale a y”

“n risplende alto nel z”

Avendo lasciato inalterati i predicati per semplicità.

La semantica è fallace

Si potrebbe tuttavia obiettare che a seguito di una interpretazione, tutte le costanti individuali sarebbe dotate di significato, e così le lettere funzionali e quelle predicative. La semantica Tarskiana ci permetterebbe allora di ovviare alle intrinsiche limitazioni sintattiche. Senonché, la procedura di attribuzione di valori di verità o falsità alle stringhe del sistema formale è essa stessa una procedura sintattica. Data una lettera predicativa monadica p e un termine del linguaggio t, affermare p(t) significare enunciare che il termine t sia dotato di una certa proprietà. Ad esempio, se la lettera predicativa indicasse la proprietà di essere rossi e il termine t fosse interpretato come una mela, si starebbe affermando che la mela è rossa.

Tuttavia, ancor prima di procedere alla “traduzione” dal linguaggio formalizzato a quello naturale, avremmo potuto attribuire alla formula ben formata “p(t)” un valore di verità, senza che p o t presentassero alcuna attinenza con oggetti pre-esistenti nel mondo esterno.
La traduzione in linguaggio naturale trae in inganno, perché pretende di ascrivere alla sintattica del linguaggio un significato recondito che di per sé essa non possiede.

L’interpretazione secondo Tarski può avvenire secondo procedure meccanizzabili da macchine prive di pensiero. La faccenda tende a complicarsi con l’introduzione dei quantificatori ma la sostanza non muta: i simboli del sistema formale e le relative relazioni di verità non posseggono alcuna attinenza con il mondo esterno. E’ l’isomorfismo che la nostra mente crea tra i simboli del sistema formale ed i simboli del mondo a riempire la semantica di significato.
Per riassumere, in ogni sistema logico formale noi interpretiamo due volte: la prima volta attribuiamo valori di verità agli enunciati, la seconda colmiamo di vita propria i simboli del sistema formale per servircene nella quotidianità.

Linguaggio e metalinguaggio

E’ indubbio che l’interpretazione nel linguaggio (la prima riportata) approdi ad un qualche risultato, esso è tuttavia totalmente relegato alla dimensione sintattica nella quale è schiacciata la formula ben formata del sistema formale in analisi. La semantica propriamente detta occorre esternamente al sistema formale: ne consegue che il vero non sia riducibile alla mera sostituzione di termini entro formule ben formate.

L’impostazione in esame ha fallito per una precisa ragione: l’intera analisi di verità giace nel metalinguaggio.
Sia che l’enunciato sia un criptico “p(t)”, sia che si scelga di avvalersi di simboli più pregiati come “Il sole risplende alto nel cielo”, la verità resiste come analisi metalinguistica di seconda istanza.
Si badi, è corretto affermare “Il sole risplende alto nel cielo” è vero, ma occorrono disastri laddove si affermi “Il sole risplende alto nel cielo è vero”.
Ne risulta che la verità dei moderni altro non sia che una proprietà metalinguistica di formule ben formate.

Esse est percipi

Vogliamo adesso richiamare l’intuizione di Berkeley è ricamarne alcuni utili corollari.
Qual è dunque l’essere che è in quanto percepito?
Certamente questi non ammette formalizzazioni, sicché venendo percepito esso è puramente semantico. Al tempo stesso non ci è dato parlarne, poiché quando ne parliamo la sua essenza scivola (come sin qui mostrato) dal piano semantico a quello sintattico. Infine, la sua essenza trova massimo dispiegamento quando l’ascolto è massimamente attivo. Quando l’io elabora ed inferisce, il pensiero tramonta, sicché l’io ha un ruolo attivo, mentre il pensiero è puramente passivo, in quanto anticipante la manifestazione dell’essere.
Alla luce di ciò, ammettendo di nomare come “noi” lo stato che accompagna la manifestazione dell’essere, è evidente che l’io non possa coesistere col noi, sicché esso può solamente attingere dalle residue memorie della manifestazione.

Se nel dominio dell’io la verità non esiste, se non come mera meta-interpretazione sintattica (o pseudo semantica) di formule ben formate (e che quindi si risolve in un puro nulla), può la verità giacere nel dominio del noi?
La risposta è doppiamente negativa. Ciò dipende dal fraintendimento che l’io possa scorgere il noi. All’io non è data questa possibilità, sicché esso è limitato nella sua dimensione contingente ed elaborativa. L’io non crea nulla, si limita a calcolare e dedurre, e se l’azione di detto cogitare può risolversi in opere di grande ingegno o bellezza ciò non implica che esso sia poco più di una macchina. Anzi, i domini dell’io e della macchina sono totalmente isomorfi.

In secondo luogo, oltre a non essere conoscibile dall’io (il quale è perciò impossibilitato a metterlo tra virgolette), il noi non è neppure partizionabile, dacché l’attribuzione di verità posticce e funzionali a questo o quello scopo non è neppure sintatticamente rilevante.

Epilogo


L’unica Verità di cui si possa ammettere l’esistenza, è la Verità dell’essere, coeva alla manifestazione, che non ammette formalizzazioni se non alle volgari condizioni di cui sopra.
La Verità ha pertanto il carattere della incomunicabilità.
Essa tuttavia non è duale, perché la dualità è oscura al noi, non esiste pertanto alcuna Falsità che si opponga alla Verità; con ciò si ammetterebbe l’esistenze di un non essere opponentisi all’essere.
Dettà Verità è imperscrutabile, perché scrutarla equivarrebbe a guardare senza vedere o ad ascoltare senza sentire.
Solo l’uomo Vero può accedervi, l’uomo capace di placare l’io e abbandonarsi al noi.

Un monaco chiese a Bodhidharma:
“Non ho la pace della mente. Ti prego rasserena la mia mente”.
“Portami la tua mente qui, dinanzi a me” replicò Bodhidharma “e io la pacificherò”.
“Ma quando cerco la mia mente” disse il monaco “non riesco a trovarla”.
“Ecco!” gridò allora Bodhidharma. “Ho pacificato la tua mente”.

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