L’ultimo capitolo di un libro
L’ultimo capitolo di un libro è un assalto di nostalgia, l’addio irreversibile a una storia. Come possiamo innamorarci di un’idea? Come può la mente umana lasciarsi ingannare tanto consapevolmente dall’incanto di un tramonto che non vedrà mai o dall’eorico sacrificio di un uomo il cui destino sembra incatenato al nostro? Come riusciamo a cedere ai richiami di un mondo che non è il nostro?
Questo è quello che una mente scientifica si chiede a proposito dei delicati meccanismi che ne regolano stupori e meraviglie, accessi e torpori. In superficie è anche quello che si domanda la mia mente, ma nelle insonsabili viscere della coscienza aleggia un presentimento. Una verità solo accennata, il cui eco pare il timido coro ondoso di una minuscola pietra lanciata in un oceano.
Siamo quello che proviamo
Nessun uomo può sondare con certezza i profondi misteri del principio di causalità.
La scienza è abituata ad inferire C da B, e a sua volta B ad A, sino ad un irritante e inconcludente regressione all’infinito.
Quando però sceglie di affinare i propri modelli, prima di inferire C da B, ritiene utile costruire ulteriori nessi causali, giungendo ad ipostatizzare un insieme di proprosizioni {K} tutte implicate da B la cui coazione a loro volta implica C. Dal momento che, come attesta il teorema di deduzione, se una proposizione è usata da una qualunque regola di inferenza in una dimostrazione per ricavare un teorema, quel teorema è implicato da tutte le proposizioni risultanti nella dimostrazione, si può affermare che B > {K} > C.
Iterando n volte otteniamo B > {K1} > {K2} > {K…} > {Kn} > C.
Non essendovi ragione logica per cui n debba essere limitato, è sufficientemente ovvio che tra una causa e il suo effetto “semantico” intercorrono infinite relazioni intermedie, che nella approssimiazione B > C sono tutte a carico dell’assioma B.
Come a dire che l’io ha la pretesa di circoscrivere l’infinito semplicemente attribuendogli un nome, nella fattispecia della logica formale e dell’esempio succitato il nome in questione è “B”.
Una argomentazione diversa
La tipica argomentazione antiscientista si rifà al primo motore immobile aristotelico, che sposa la necessità umana di dare un nome all’infinito.
Io auggerisco una obiezione inedita, se ogni effetto ha infinite cause, in cosa differisce da esse?
Abbiamo l’urgenza ossessiva di essere contenuti entro dei limiti, logici e geometrici. In questo senso, diffido dalla scienza e dai suoi presunti risultati. Pertanto ritengo che la realtà racconti più di ciò che l’uomo è in grado di assorbire da essa. Più precisamente, trovo che il mistero del mondo sia esattamente nell’assenza di misura. L’esistenza katà métron (con misura, misurabile) è priva di senso e densa di nomi.
La fine del libro
L’ultimo capitolo di un libro è pertanto il brusco risveglio da un mondo che sembra funzionare nonostante l’assenza di regole. Tutto può avere un senso. Una scelta apparentemente incomprensibile è il risultato di una forza ignota al lettore e non altrimenti governabile. Non è esattamente quanto accade nella cosidetta realtà?
Una dozzina di giorni fa ho concluso un libro aperto da mesi che raccontava di oceani e faune acquatiche.
Si potrebbe credere che il libro sia concluso, ma ingenuo è chi crede che l’ultima lettera sia la fine di un racconto, perché nel cuore quel mondo continua, in parallelo con mille altri, e non spegne mai la passione che l’io accende e poi infrange. E la vita sempre riserva sorprese.