Sul nulla
Sul nulla si è detto ogni cosa. Emanuele Severino riconosce nella civiltà dell’Occidente (nel senso greco – filosofico) la tendenza ossessiva ad occuparsi della nullità delle cose, la loro sconcertante caducità che le porta a percorrere l’infinita distanza che insiste tra l’Essere e il nulla. In ciò esibisce l’aporia del pensiero greco, l’antinomia che guida l’avventura filosofica dell’Occidente sino (secondo lui) ad Heidegger.
La Grecità inaugura il regno del divenire con Platone e il suo parricidio (ma Severino “retroascrive” questa responsabilità ai curatori dei miti). Tanto il mito quanto la filosofia serberebbero per Severino il carattere comune di costruzioni sedative, solo funzionali (to agathon) a placare il terrore dell’uomo avverso il divenire delle cose. Nella sua “filosofia futura” egli denuncia la contraddizione in termini scaturente da siffatta costruzione.
Qualunque Universale (nel seguito episteme), ammette tacitamente l’esistenza del divenire.
Perché occorrerebbe firmamentare (firmamentum, rendere fermo) qualcosa, se non in quanto si presta incrollabile fede nell’esistenza del divenire?
Segue quindi una nutrita collezione di esempi contro l’idea stessa del divenire. L’argomentazione di Severino è pressapoco la seguente: come può un essente, che dapprima si predicava dalla proprietà di “essere”, cessare di “essere”? Lungi dallo scrivente voler banalizzare il nucleo del pensiero severiniano, ma non disponendo di tempo infinito sono costretto a rimandare il lettore curioso alla lettura immediata dell’autore.
Lo stesso Heidegger non è risparmiato da una duplice critica del filosofo lombardo. Egli è infatti tacciato di assumere posizioni spesso ambivalenti, valentigli per questo riconoscimenti a volte gratuiti. La sferzata epistemologica colpisce invece il cuore dell’impostazione Heideggeriana. Egli infatti non avrebbe avuto la forza di rinunciare al divenire, depotenziando il suo pensiero nell’ennesima forma di episteme; la stessa episteme che nasce con lo scopo dichiarato di porsi come argine ad un divenire inesistente.
Ci vuole coraggio
E’ evidente che certe posizioni crudamente parmenidee arrechino disturbo ad un mondo asservito ai bisogni metafisici della tecnica e, soprattutto, risultino indigesti ad un pubblico (pure di una certa levatura) abituato a cercare la quadra ontologica nell’alveo di una più rassicurante adaequatio rei et intellectus, dacché la dualità insita nell’ente e nel pensiero è sottesa e coimplicata dal divenire delle cose.
Non posso avversare più del necessario il pensiero di Severino, cionondimeno trovo utile ricercare una sintesa tra i suoi assoluti filosofici e certe costruzioni Heideggeriane.
L’essere si manifesta
Heidegger l’aveva ben compreso. Egli infatti scioglie piuttosto abilmente il nodo ontologico del nulla.
Intervengo con la mia personale impostazione.
Ogni volta che ad un termine singolare si lega la copula “è”, essa, quale che sia la sua funzione logica sottesa (equivalenza, inclusione, attribuzione) inevitabilmente predica. Afferma cioè la possibilità, per quanto ipotetica o irrazionale, che un certo essente sia. Se questo problema vi scandalizza, non scandalizza i logici, ben consci che Quine risolse l’enigma con la tecnica della pegasizzazione dei termini singolari. Tuttavia, il non dicibile non è esperibile né lo sarà mai. Quando si afferma che “nulla” non “è”, si commette l’errore di discorrere sopra una parola, che quantomeno deve potersi predicare della sua dicibilità. Ecco che parlare del nulla è parlare del “nulla” (cioè della sua costruzione sintattica). Del vero nulla non potrà mai dirsi nulla, ed è bene notare che financo in questa proposizione la proprietà di non potersi dire nulla è attribuita “al vero nulla”. Riferendosi tuttavia ad un termine singolare la precedente affermazione è falsa. L’unica speranza che ho affinché possiate comprendere l’aporia ontologica è di giocare con le parole, affinché chi legga riesca a comprendere il senso ultimo dell’indicibilità del nulla (che, di nuovo, non è l’indicibilità del nulla ma “l’incidibilità” del “nulla”).
Ogni volta che provate a pensare al nulla ne avvalorate l’esistenza, e quello non è il vero nulla, ma solamente la parola che usate per riferirvici. Soltanto se sentirete il vuoto senza sentirlo riuscirete a comprendere il nulla senza comprenderlo (e questo non è un orientalismo)
L’eternità è la luce dell’essere
Se dunque non ha senso parlare del nulla, ne ha eccome parlare dell’essere.
Più o meno.
Il linguaggio dei moderni fa infatti uso di termini singolari; ma se il divenire è illusorio lo è anche il duale (e quindi la molteplicità).
Per parlare dell’essere occorre perciò un linguaggio che non de-termini, ma che sappia abbracciare l’infinito.
Due sono gli esempi di cui l’uomo può appropriarsi. Il sogno e la poesia. Qui non vale il principio di non contraddizione, non è possibile de-terminare. Il senso delle cose resta nell’orizzonte per un tempo più o meno lungo, per poi essere plasmato e scomparire, facendo spazio ad un senso diverso che tuttavia non rimuove ma estende quello precedente.
Ogni essente è parola per l’Essere, ma solo il richiamo della luce permette alla cosa di fuggire la loro cosalità e partecipare all’essenza delle cose. Tutto è, ma l’io interrompe il flusso non-flusso e pro-duce il nome. Il pensiero è totalmente esposto all’Essere, ma l’uomo sceglie di coglierne solo una parte perché ha scelto di dominare la molteplicità, scegliendo in ciò l’angoscioso destino del divenire.
Adesso non sto baciando Giulia, ma la sto baciando.
Chi riuscirà a trarre l’infinito dal cerchio? Solo chi smette di chiamarlo cerchio.
Se io riuscirò, Giulia sarà fiera di me?