Perché il test di Turing non è un dogma

Perché il test di Turing non è un dogma

Cosa ci rende diversi dalle macchine?

Questa sera mi piacerebbe trattare un argomento che da sempre suscita ingiustificato clamore nella comunità scientifica.
L’eziologia che si cela dietro l’aggettivo “ingiustificato” è naturalmente la ragione della genesi del presente articolo.

Come il titolo anzitempo denuncia, la patata bollente della settimana è il test di Turing.

L’esperimento

Ai lettori a digiuno sull’argomento, celermente ripropongo una versione raffazzonata dell’esperimento proposto da Alan Turing (e a più riprese dibattuto da Hofstadter in Gödel, Escher, Bach).

Si immagini di essere in una stanza completamente isolata dall’esterno, se non per la presenza di due videoterminali.
Ciascun terminale è dotato di una tastiera è di un cavo per l’invio è la ricezione di messaggi. I due cavi sono collegati a due stanze diverse, anch’esse isolate.

Esperimento di Turing (Immagine prelevata da https://sites.google.com/site/ginevrarovini/home/il-test-di-turing)

L’esperimento prevede che l’umano nella stanza con due videoterminali debba inferire, scrivendo liberarmente ai due terminali, quale dei suoi interlocutori sia una macchina e chi un umano.

Cosa veramente credesse Turing a tuttora mi sfugge, né ambisco a dispensare giudizi antistorici su persone (per giunta geniali) figlie della loro epoca.

Ciò che trovo affatto sbalordente è l’atteggiamento scientista di certi sedicenti depositari del sapere che pretenderebbero di dedurre la non esistenza dell’anima in forza di presunti meccanicistici isomorfismi tra macchine è uomini. La pietra d’angolo delle loro proposizioni è il presunto successo del test di Turing.

Successo che, ad oggi, è lungi dall’essere ottenuto. Non solo: essi scelgono di comprimere l’essenza dell’uomo alla mera appartenenza alla dimensione grossolana della materia.

Tu, ateo anticlericale che leggi: non vomitare bile ancor prima che sia completamente dissipato il senso delle mie pretese.

Come precedentemente chiarito, non è affatto escluso che il cervello possa essere l’occulto regista della totalità delle nostre azioni. E neppure mi spaventa concedere spazio ai peggiori determinismi scientifici, anzi, li incoraggio;

Cosa ci rende diversi dalle macchine? Fase 1: la semantica

Ogni moderno dispositivo elettronico prevede la possibilità di ricevere input ambientali. A mezzo di sofisticati trasduttori, essi raccolgono segnali analogici che convertono in potenziali elettrici e quindi in informazioni binarie.

La differenza sta tutta qui: posto che un mondo esterno esista, quando raggiunti dal medesimo segnale, il calcolatore elabora, l’uomo sente.
Ammesso ma non concesso che anche l’encefalo abbia facoltà di elaborare alcunché, il nostro stimolo ultimo è il sentire.

Già questo primo argomento dovrebbe cancellare ogni dubbio reliquato su certe becere posizioni scientiste.

Illudersi che una macchina possa percepire alcunché soltanto perché questa è stata opportunamente addestrata a spergiurare di esserne in grado è una infantile bugia che non cancella la verità di fondo: nella nostra solipsistica arroganza, noi sentiamo, la macchina no.

Cosa ci rende diversi dalle macchine? Fase 2: l’abbandono della volontà individuale

Chiarita la prima, incolmabile differenza tra uomo e macchina, trovo deliziosamente voluttuoso infierire sulla caporetto della scienza atea.

Prima occorre però annoiare il lettore con qualche proposizione preliminare.

Nel corso dei decenni, si è spesso argomentata la superiorità dell’uomo attribuendogli libertà d’arbitrio e di pensiero. Hofstadter, è il caso di ammetterlo, scioglie questa ipostatizzazione attraverso una abile recursione all’infinito che in estrema sintesi implica l’impossibilità di dimostrare la veridicità di una affermazione su un sistema nel sistema medesimo.

Ciò è dolorosamente vero: fondando la nostra conoscenza sulla sola fisica, è impossibile dedurre se siamo o meno liberi nelle nostre azioni.

Resta tuttavia intonza la possibilità della non scelta.
Non una non scelta intesa come una non azione, bensì come una più nobile rinuncia alla propria volontà individuale.

Troverebbe spazio l’obiezione secondo la quale anche la macchina può scegliere di non scegliere, e che anche questa sarebbe a suo modo una scelta, dacchè come corollario l’impossibilità a non compiere scelte. Voglio pertanto essere chiaro: l’abbandono della volontà individuale è non già la succitata volontaria sospensione del giudizio, bensì armonico e fiducioso abbandono a Dio e alla sua sacra Volontà, scegliendo di strappare contro ogni logica umana i seducenti legacci della tentazione per sciogliersi nell’Uno.


Tutto ciò, quando occorre, non esige dimostrazioni.

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